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A casa di Fanette e dintorni

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A casa di Fanette e dintorni

Manuel era arrivato a casa di Fanette in fondo a un lungo viale fiancheggiato da alberi spogli.
Dopo aver salito le strette rampe di scale e schiacciato il pulsante lucido d’ottone, attese qualche secondo, poi Fanette lo fece accomodare. Entrò in una stanza in penombra dove non poté non notare i laconici sguardi di due donne apparentemente in attesa.
Fanette si premurò delle presentazioni: i nomi furono pronunciati sottovoce, quasi un bisbiglio. Le due donne, restando distese in poltrona, si presentarono e gli porsero mani bianchissime e mollemente avvolgenti, con un gesto accompagnato da una evidente indifferenza.
Mentre il momento sembrava sospeso, suonò il campanello d’ingresso; Fiore, una delle due, si diresse alla porta e fece entrare una donna di età indefinibile, magra e molto truccata e che, silenziosa, andò a sedersi in una poltrona appartata rispetto alle altre.
Fanette lo attirò lentamente verso una finestra su una parete di fondo, mentre quelle donne continuavano a parlare tra loro, con scivoloso, gli apparve, distacco.
Manuel e Fanette l’una all’altro di fronte: lei lo guarda con occhi che sembrano alludere a un languido passato, quasi volessero rinnovare antiche intimità solo apparentemente sublimate in ricordi.
Ha il viso adorno di un orecchino soltanto; forse un pegno per un amore futuro. Appoggia il viso sulla spalla di Manuel. Lacrime lente e umidicce bagnano la giacca sgualcita e di anonimo grigio che lui indossa.
-Perché piangi? le chiede.
-Non vorrei essere qui, risponde, ma lontano, in un’oasi di palme del deserto, circondata dal sole. Un sole violento, da togliere il fiato; io che amo la pioggia, lo sai. Quante volte mi hai rimproverato di non parlare di me! Eppure lo vorrei, e basterebbe un tuo gesto d’amore più che mille parole. Ma tu non hai gesti di tenerezza, solo parole prive di sentimenti. Sembrano quelle del mio dentista quando mi chiede, toccandomi con uno di quei terribili attrezzi metallici, dove mi fa male. Non soffrirei più se sentissi un briciolo d'amore in te, e anche tu, forse, potresti cancellare ogni tuo malessere.
-Non ti capisco, Fanette. Forse non ti ho mai capita … Chi è la donna che è entrata poco fa?
-Miranda, ma non importa.
Manuel guarda verso i divani, le tre donne sono scomparse.
-Dove sono andate?
-Di là, nel salottino piccolo.
-Per lasciarci soli?
-No, puoi immaginare il motivo.
-Usi ancora la coca, vuoi dire?
-Quando loro vengono da me; è Miranda che la porta.
-Che bisogno hai di questi sogni?
-Non sono sogni.
-E cos’altro?
-Viaggi, dentro me stessa.
-Sai che non sopporto tutto questo, a che serve?
-A non vedermi come sono: brutta e sgradevole.
-Non sei brutta, né sgradevole, smetti con questa storia.
-Ma sì, domani sarà tutto passato, anche il mal di testa. Vorrei dimenticare, è vero, eppure sono ossessionata dal fatto che poi ogni paura ritorni e io non riesca più a liberarmi.
-Dimenticare cosa?
-Tu sai che ho avuto un marito?
-A che serve tornare alla tua vita passata?
-Non riesco a fare a meno dell’odio che provo ancora per lui. Un essere ignobile e volgare. E anche violento.
Tacquero per un po’, restando fermi, in piedi, accanto alla finestra.
-Vieni di là anche tu, ti prego, resta con me, ho bisogno del tuo amore.
-Potresti averlo anche senza questa pantomima.
-Le cose cambieranno, cambiano sempre, le cose. Per questo si aspetta tanto, adesso sembrano immobili, eppure, già da ieri, o dall’altro ieri, o dal mese scorso, che importanza vuoi che abbia, sono cambiate.
Lo guardò con occhi quasi imploranti, poi aggiunse: -Chi mi ha amata mi ha perduta; inseguo chi mi disprezza. Resta con me, questa notte, ti prego.
-Perché?
-Perché ho bisogno di te, perché potrei arrivare a capirmi, finalmente; il tuo amore, se sarai generoso, può salvarmi.
-Il mio amore?
-Come il mio per te, io ho amato solo te. Tacque per qualche secondo, poi aggiunse: -----Devo andare; e tu vuoi fuggire come al solito. Come ogni volta che ho veramente bisogno di qualcuno di cui potermi fidare.
-Sì, vado via.
-Ceniamo insieme domani?
-Un momento diverso? Una sera diversa? È questo che vorresti?
-Sì, spero che sarà così.
Manuel guardò il suo volto teso: i lineamenti si stavano indurendo lentamente. Poi Fanette, con gesto improvviso, mise l’orecchino in una mano di lui.
Non c'era alcuna grazia nel gesto, solo la voglia di sottrarsi, di evitare la parole, concedendo in cambio orpelli da nulla. La sua bocca appariva ghignosa, gli occhi erano diventati come fessure.
Manuel le prese la mano che lei cercò di divincolare.
La lasciò andare e Fanette, quasi per addolcirlo, disse ancora: -Amo solo te.
La guardò avviarsi verso l’altra stanza nel suo abito sciatto, i capelli erano raccolti in disordine sulla nuca, il passo trascinato.
Si chiese chi fosse veramente Fanette.
Poi pensò che l’essenza non potesse che essere prevaricata dall’esistenza.
Pensiero banale? Scarno tentativo di dare un significato qualsivolglia al rapporto sfilacciato e inconcludibile con lei?
Uscì dall’appartamento e si ritrovò nel viale bagnato dalla pioggia d’inverno.

Ristorante in centro.
Manuel aspetta Fanette in un tavolo d’angolo.
La vede arrivare e togliersi il cappotto che un cameriere porta nel vestiaire. Resta elegante in un tailleur Chanel color malva con bottoncini gialli di stoffa, gonna al ginocchio, tacchi alti e velatissime calze.
È al braccio di uno sconosciuto che le ha fatto strada entrando. Sorride, scintillante nell’oro degli anelli e degli orecchini.
Siedono a un tavolo al centro della sala, evidentemente prenotato. Manuel cerca il suo sguardo, ma Fanette non vede o lo ignora.
Un’altra coppia arriva e siede con loro. Sembrano euforici, parlano e ridono allegramente. L’accompagnatore di Fanette le prende una mano, Fanette sembra gradire.
Manuel si alza e si avvia verso l’uscita passando accanto a quel tavolo, invano aspettando uno sguardo o un cenno di saluto.
Si sentì trasparente, eppure ferito nell’amor proprio.
Si consola: quel ristorante non è certo il suo ambiente.
Non vuole leggere le parole che ha visto, non ascoltate, sulle labbra
di lei. Avvolge la sciarpa intorno al collo, indossa l’impermeabile ed
esce.
Per strada s’interroga; nient’altro può fare che circoscrivere il comportamento a ciò che ha visto, al presente inatteso.
L’aria è umida e nebbiosa, potrebbe piovere ancora o, addirittura, nevicare.

Lesse, tre giorni dopo, sulla cronaca locale del giornale più diffuso in città, che una signora del bel mondo era stata trovata morta nel suo appartamento, probabilmente a causa di un cocktail di droghe pesanti; il corpo era stato rinvenuto dalla donna delle pulizie. In casa non c’era nessuno, solo il corpo nudo della signora Fanette Assalò disteso nel letto. Gli inquirenti cercavano il fornitore della droga.
Sarebbe stato suo dovere presentarsi in una caserma dei carabinieri?
Poteva raccontare tutto quello che aveva visto al ristorante; anche se i camerieri e il proprietario certamente erano già stati interrogati e la sua testimonianza sarebbe stata inutile. Però, avrebbe potuto riferire di un ambiente che aveva frequentato, se pur saltuariamente.
Come aveva conosciuto la signora Fanette Assalò?
Sapeva delle sue amicizie e frequentazioni? E lui, Manuel, aveva mai fatto uso di stupefacenti insieme a lei? Che rapporto aveva con la donna?
Spiegare, interpretare, parlare dello smarrimento che, tante volte, aveva osservato negli occhi di lei.

Una domenica mattina l’aveva incontrata mentre entrava in una chiesa. Si era fatto vincere dalla curiosità e, durante la messa, l’aveva vista prendere la comunione: cercava un segno che la aiutasse? Manuel ne era rimasto sorpreso ma era uscito senza aspettarla.
Aveva provato gelosia, a volte; un sentimento che era stato spesso sostituito dalla curiosità e dalla voglia di sperimentare un mondo che gli era sconosciuto.
Ebbe paura: se quelle due donne, Fiore e Gidia, avessero parlato di lui? Cosa sapevano? Quando gli erano state presentate non gli avevano mostrato alcun interesse; certamente, non ricordavano neanche il suo nome.
Testimoniare e riferire quel poco di cui era a conoscenza?
Forse avrebbe dovuto acconsentire a un’indagine; magari parlare di sé, del suo io, quello profondo e mentendo sul rapporto che aveva avuto con Fanette: non avrebbe sofferto di alcun senso di colpa. Ma che colpa? Lui non aveva mai partecipato al rito dello sniffo, non conosceva quella Miranda, probabile fornitrice della droga. Gli investigatori non avrebbero avuto nulla da ridire sul suo comportamento.
Pensava tutto ciò camminando per strade di periferia, dalle parti della sua abitazione, con l'unico obiettivo di non essere coinvolto in storie fastidiose se non, addirittura, pericolose.
Si accorse di avere ancora in tasca l'orecchino che Fanette gli aveva dato, lo tirò fuori e lo guardò con scarso interesse.
Si sentiva stanco.
Avrebbe voluto tornare indietro nel tempo, quando ancora non la conosceva, prima delle sue bugie. Adesso sapeva che lei diceva bugie; ma non aveva più importanza, così si sentiva giustificato per l'atteggiamento di indifferenza che le aveva mostrato.
Certo, avrebbe potuto trascinarla via da quella riunione di donne perse dietro stupidi sogni. Avrebbe potuto dirle; -Vieni tu via con me, sarà il mio amore a salvarti. Non l'aveva detto, forse era un impegno di cui non voleva farsi carico.
Fanette ormai era morta, non doveva più preoccuparsi.
Pensò a un giorno in cui era appena tornato dal mare e, in casa, la luce si spegneva a intermittenza per un temporale in arrivo.
Un’assenza, un riposo nel buio con un sigaro tra le labbra, in un’atmosfera esiliata e superflua, forse per colpa della pioggia, o del mare che era stato agitato, tanto che, pur lontano dalla battigia, gli spruzzi erano spesso arrivati sino a lui.


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